martedì 28 aprile 2009

Un’amicizia… di cuore


Partirei dal ricordo di una chiacchierata semplice. Il frutto di una casualità, come del resto lo è anche il punto di partenza: imprevedibile, come un raggio di sole fra le nuvole grigie. Così definirei questa profonda amicizia raccontata dall’occhio vigile e sensibile di Francesca Archibugi: il calore di un’inaspettata occhiata di sole, in un pomeriggio cupo.
Il fotogramma più bello, dunque, è quello di Angelo (Kim Rossi Stuart), pallido e smagrito, accanto all’amico Alberto, supini su un letto matrimoniale che dovranno condividere in un contesto casuale quanto sincero: le risate si ascoltano volentieri, si respira così tanta sofferenza che il suono arriva suadente e soprattutto vero. Pare che l’allegria del momento sia spontanea, voluta e senza traccia di un copione. E, sinceramente, voglio continuare ad immaginare che sia così.
La naturalezza di cui si fa carico questa pellicola, non è altro che il risultato di una scelta appropriata: Antonio Albanese vive un ruolo del tutto nuovo ed in questa trasformazione si apprezza maggiormente la sua intensa capacità di comunicare. Un uomo colto, intelligente e solo prigioniero di paure e della sua stessa creatività. Kim Rossi Stuart, invece, acquista una luce nuova mentre il suo personaggio scompare, divorato dalla malattia. I primi piani accentuano la sua ineccepibile bellezza, racchiusa in quelle mani da lavoratore instancabile, in quel viso scavato di chi non mangia da giorni e in quegli occhi che non riposano felici da tempo.
Il tutto incorniciato da un intreccio di realtà differenti, separate dai pregiudizi ma accomunate da uno stesso dolore. Un’amicizia che, nel cammino, diviene dapprima sincera ed infine irrinunciabile. La condivisione di una sofferenza si trasforma in una delicata intrusione nella vita dell’altro, sino a conoscerne le debolezze, le sfumature, le ragioni: la vita dell’uno colma i vuoti dell’altro, e viceversa. Un film che porta a riflettere sui paradossi dell’amicizia, sull’autenticità e sulla necessità di questo sentimento.
Una trama che calibra accuratamente commedia (la partecipazione di Verdone nel ruolo ipocondriaco di se stesso, ne è un esempio) e drammaticità, dando a qualunque interprete la possibilità di sentirsi svincolato da un imperativo copione.
Il cinema trasmette sensazioni, il dovere dello spettatore è quello di viverle e mantenerle nel tempo. Questo film non è un capolavoro ma, nella sua piccola storia, racchiude tante emozioni.
Trama
Angelo (Kim Rossi Stuart) è un giovane carrozziere con una bella famiglia, un lavoro redditizio ed uno spirito instancabile. Alberto vive una vita rumorosa, come il suo carattere, ama le donne, la bella vita e il disequilibrio. Nella stessa notte, i due, vengono ricoverati nello medesimo ospedale: i loro cuori si ingrippano nello stesso istante. Sin da subito si percepisce quanto la forza dell’uno compensi la debolezza dell’altro e, da quella notte, due quotidianità così differenti diverranno una sola vita.
Citazioni
- Angelo (Kim Rossi Stuart) "... e perché “er caffè” deve essere “ar vetro”?!? Cosa cambia"
Carta d'identità
Titolo italiano: Questione di cuore
Data di uscita (in Italia): 17 Aprile 2009
Genere: Drammatico
Durata: 102'
Regia: Francesca Archibugi
Cast: Kim Rossi Stuart, Antonio Albanese, Micaela Ramazzotti, Paolo Villaggio, Francesca Inaudi, Francesca Antonelli, Chiara Noschese, Nelsi Xhemalaj, Carlo Verdone
Da vedere: il cinema italiano merita occhi attenti. Antonio Albanese è assolutamente impeccabile. Kim Rossi Stuart lo asseconda con intelligenza. Un film che non si vergogna dei sentimenti. Non li elude, piuttosto li intensifica. Dolce e malinconico.

sabato 11 aprile 2009

Il bambino che sapeva volare


L’agrodolce favola del piccolo Bruno (Asa Butterfield) riempie il cuore di sofferenze taciute e gli occhi di lacrime tormentate. L’urlo di una madre che ha la consapevolezza di aver perso tutto e il silenzio di un padre rigido che, con il potere, ha scavato la propria rovina. Gli ultimi istanti sono un tumulto di sensazioni, si viene inghiottiti da una catastrofe che inarrestabile si delinea davanti agli occhi: inaccettabile, intensa, ineluttabile.
E pensare che, sino a quel momento, gli occhi di Bruno erano divenuti i nostri, la sua ingenuità la nostra speranza, le sue corse nel bosco prendevano fiato nelle nostre attese. “Il bambino con il pigiama a righe”, tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne, è una favola che si compie a piccoli passi, nel quale Mark Herman prende per mano lo spettatore in modo delicato, rispettoso e con il dovuto riserbo come farebbe un bambino di fronte ad un adulto sconosciuto.
La bellezza di questo film è nascosta nella sua adattabilità ovvero pur facendo prevalere l’innocenza e la spensieratezza di un bambino non dimentica l’arroganza e l’ipocrisia dell’adulto. Di fronte alla tragedia si ha un prisma di punti di vista che offrono al film sfaccettature differenti a seconda dell’età dello spettatore. Questa realtà si compensa con le incertezze degli interpreti, i cui ruoli molto spesso perdono la consistenza e si sfiorano sino a fondersi: una sorella che scava nel mondo degli adulti sino a sentirsi parte di esso, una madre che ignora la realtà dei fatti anche quando questi si presentano come ovvi.
Il piccolo Bruno resta l’eroe su cui far fede: i suoi grandi occhi azzurri cercano avventure, la sua sincera curiosità viaggia insieme alla fantasia e quando anche le sue gambe inseguono la sua immaginazione si ha la sensazione di aver valicato la barriera della certezza, tutto quel che si vivrà al di là di quel bosco ha il respiro del dolore.
Subentra così il piccolo Shmuel (Jack Scanlon) e con il suo personaggio pare prendano vita barriere dapprima invisibili; la prima è chiaramente quella tangibile rete metallica che separa le due realtà, ma non il desiderio di restare bambini nonostante tutto. Bruno, abbigliato in modo impeccabile, sempre carico di doni per il suo nuovo amico, comprende quotidianamente realtà nuove. Shmuel, dal canto suo, indossa il solito “pigiama”, ha il viso sporco e i denti da troppo tempo trascurati, da quest’incontro ne ricava cibo e parole, allontanando una solitudine che a quell’età non dovrebbe esistere. Ma le barriere esistono anche nei rapporti umani, di adulti che non accettano le realtà dell’altro, di crudeltà ingiustificate, di sguardi che non hanno il coraggio di sconfinare nei sogni.
A conclusione di questa favola amara il dolore, determinato dal senso di perdita, sarà così grande quasi da cancellare la scena a mio avviso più intensa del film, che trasmette quella commozione inaspettata che serra la gola: il dialogo fra Bruno e Pavel (David Hayman), il prigioniero ebreo che lavora in casa. In quel viso scavato e pallido, in quella voce flebile e negli occhi arrossati di chi merita un futuro adeguato, leggiamo una storia di crudeltà umana che non possiamo dimenticare.
Ed il silenzio prolungato prima di quel “Grazie” insperato sussurrato dalla signora Elsa (Vera Farmiga) al medico Pavel (perché è quella la professione di cui è degno), lo ritroviamo verso la fine della vicenda, quando in un trambusto di suoni ed immagini la porta del forno si chiude lasciandosi alle spalle migliaia di vittime innocenti. Solo un silenzio meditativo può accompagnare con dignità l’intensità di questi fotogrammi.
L’agonia che silenziosamente si farà largo in sala, non risanerà mai il debito di crudeltà umana che abbiamo con la storia.
I bambini passano notti insonni quando li attende un grande giorno. Aprono le braccia e fingono di saper volare. E, al di là dei sogni, vi sono ancora sogni. Ma questa è realtà.
Trama
Berlino, anni Quaranta. Quando l’ufficiale Ralf (David Thewlis) viene promosso ad alti incarichi, la sua famiglia viene costretta a trasferirsi in campagna. Il piccolo Bruno (Asa Butterfield) è infelice nella nuova dimora, si annoia quotidianamente e si sente molto solo. Questa condizione cambia in modo repentino quando, al di là del bosco, scorge una strana “fattoria” nel quale i “contadini” indossano un insolito pigiama e dalle ciminiere si alza un olezzo insopportabile. La curiosità e l’ingenuità guideranno Bruno verso una realtà a lui sconosciuta nel quale il piccolo Shmuel è costretto a vivere: fra i due nascerà una solida amicizia, dove ai due verrà restituita quella felicità che gli adulti abbandonano nel tempo.
Citazioni
- - Bruno (Asa Butterfield) "Te lo avevo detto che sono strani" - Elsa (Vera Farmiga) "Chi?" - "I contadini no, vanno in giro in pigiama"
- "L'amicizia può unire quello che le barriere dividono"
- Shmuel (Jack Scanlon) "Noi non doremo essere amici , dovremo essere nemici"
- Bruno "Ma non è un nome Shmuel, nessuno si chiama così"
- Bruno "Mio padre è un soldato, ma non di quelli che rubano i vestiti alle persone"
- Il nonno (Richard Johnson) "Il lavoro che tuo padre fa qui rimarrà nella storia"
- Bruno "Potresti venire in vacanza da me a Berlino quando tutti andranno di nuovo d 'accordo"
- Bruno "Non ti preoccupare,ci faranno aspettare quì fino a quando non smette di piovere"
Carta d'identità
Titolo originale: The Boy in the Striped Pyjamas
Titolo italiano: Il bambino con il pigiama a righe
Data di uscita (in Italia): 19 Dicembre 2008
Genere: Drammatico
Durata: 100'
Regia: Mark Herman
Cast: David Thewlis, Vera Farmiga, Rupert Friend, Iván Verebély, Richard Johnson, Sheila Hancock, Jim Norton, David Heyman, Asa Butterfield
Da vedere: Per piangere quelle lacrime taciute e reali. Di una crudeltà tangibile, che provoca dolore, che lo si porta appresso come un debito mai saldato. Toccante.

domenica 5 aprile 2009

Emozioni a sei corde


C’è e si percepisce una perfetta mescolanza di passione, intelligenza e raffinatezza. Debutto con “Arrowhead” del maestoso Michael Hedges, tanto per ricordare che qualunque arte individuale prende vita dalle grandi emozioni, seguita da un tributo legittimo ad “Anima Meccanica” album d’esordio in uscita a Maggio.
Giovanni Baglioni ha 26 anni ma ha già l’abilità dell’artista consapevole, capace di intrattenere un pubblico eterogeneo, a tratti ammaliare anche orecchie inesperte e altresì mantenere l’umiltà di esordiente.
Giovanni ha la saggezza di introdurre ogni suo brano con una breve cronistoria legata all’origine di ciascuno, preparando lo spettatore ad una particolare sensazione. Come se, le parole, fossero utili a disegnare un contorno, ma solo le note fossero in grado di riempirlo di colori e sfumature donandogli il confacente significato. Primo su tutti è, senza dubbio, “Anima Meccanica”, un brano suggestivo, scandito da ritmicità differenti consone alla “vita” quotidiana di un grande orologio. Come l’evocativo “Rubik”, un mosaico di tasselli musicali tanto differenti quanto curiosamente complementari.
Il sentore di un’atmosfera seducente sulle note di “Sirena” e profondamente intima in “Dalla Cenere”, catturano, incantano e trascinano. L’abilità di Giovanni sta in questo ricreare atmosfere differenti, ricche di significato, entrando in perfetta armonia con la sua chitarra: gli occhi spesso chiusi sono sinonimo di concentrazione ed intensità, come le sue movenze indicano un coinvolgimento universale capace di prendere vita dalle corde sino a raggiungere l’intimità dello spettatore.
Il racconto a cui sono particolarmente legata è quello di presentazione per “Quando Cade Una Stella”, uno dei pezzi che mi somiglia di più; malinconico e riflessivo, racconta il ricordo di un Amore importante e finito, ma così intenso da vincere il tempo.
Accade di sconfinare anche verso sonorità vagamente funky con uno dei miei due brani preferiti, “Bloody Finger” senza il timore di eccedere a cadenze ritmate e dinamiche come quelle di “Get Up!”. Osare è anche pensare, comporre e arrangiare un brano (“Pino”) per omaggiare il proprio Maestro, in questo caso Pino Forastiere. Un brano complesso e nel contempo intuitivo, la cui esecuzione merita sempre una particolare attenzione per completezza di tecnica.
Per intuizione, “L’insonne” è forse la composizione a cui l’artista è legato di più. Nell’ascolto mi sovviene sempre “Layover” (di Hedges), per il carico di intensità che si porta appresso il pezzo molto spesso pare respirare.
Infine a chiudere il decalogo di “Anima Meccanica”, c’è “Bijoux”: una delle prime composizioni di Giovanni (ma non per questo minori) e soprattutto superstite della sua pignoleria artistica. Un pezzo semplice, vivace e spontaneo. Non nascondo che sia il brano a cui devo l’emozione più grande.
Ma l’essere spettatrice (complice un’atmosfera nuova per la sua musica, il “Blue Note” di Milano - tempio sacro del Jazz) mi pare sia il regalo più bello.
E, nonostante la meritata acclamazione, esserci e basta.

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