sabato 25 ottobre 2008

Volare restando immobili


Che il pianoforte di Paul Cantelon (in “Theme For The Diving Bell And The Butterfly”) accompagni le vostre lacrime dolcemente e senza vergogna, come armoniosamente conduce la straziante uscita di scena di Jean-Do.

"Per capire il dolore non è necessario viverlo. […]
Fu la prima volta, quella, in cui iniziai a guardare gli essere umani dal basso […]
Continuai a vedere i volti delle persone come fantasmi. Dal basso. Dal lettino. Poi dal letto. Fu lì che cominciai a contemplare il mondo dall’inferno. Ti sembra di aver sempre visto gli altri stare lassù in alto… vorresti alzarti, metterti alla loro altezza, nella posizione abbandonata solo poche ore prima. E prendi coscienza che non sarà mai più così […]
Non puoi morire, né tornare indietro” – Ramon Sampedro -

Dal libro “Mare Dentro - Lettere dall'inferno”

Immediatamente dopo la visione ho tentato di raggiungere gli amici, in un locale vicino. Appena varcata la soglia, cortesemente, ho salutato e me ne sono andata. Fuggita dalle chiacchiere rumorose, dalla musica assordante e soprattutto da persone che (in quell’istante) non si portavano appresso lo stesso turbamento interiore che divorava me. Non era lì il mio posto.

Torno a ribadire quanto ogni film non assomigli a nessun altro: come qualunque figura possiede la sua ombra, anche ciascuna pellicola suscita sensazioni differenti. Tuttavia, malgrado non volessi pensare a quel capolavoro che è “Mare Dentro”, lui si è “seduto” accanto a me in modo spontaneo, come vicino mi è ogni giorno. E’ stato normale, pertanto, assaporare similitudini.
Nel film di Alejandro Amenábar, si analizzano i due estremi, ovvero la vita prima e la morte poi, portando all’attenzione del pubblico l’idea di eutanasia. In questa pellicola, invece, si sviscera quel concetto che sta sospeso fra i due, che è la sopravvivenza. Il desiderio di porre fine a quell’inferno, tocca il protagonista una volta soltanto. Eppure, il vento della morte aleggia implacabilmente su ogni cosa.
Il film di Julian Schnabel, racconta di un uomo coraggioso che, nel fervore della bella età, accusa un malore: dopo tre settimane di coma, si risveglia completamente immobile, privato dell’uso della parola, intrappolato in un corpo che non risponde più ai comandi primari e soprattutto chiuso dietro a quel vetro di silenzio impossibile da infrangere. Quando si è spettatori di una realtà inaccettabile, crudele e straziante (che non è una sofferenza sentimentale, una delusione affettiva ma qualcosa di inesorabile che lentamente esclude dal comune vivere e consuma nella monotonia di una prigione clinica) il circondario diviene fittizio, personalmente mi sono sentita opprimere dai problemi che mi affliggono giornalmente, in quanto deboli rispetto a quello di cui ero testimone.
Non soltanto la vicenda considerata in valore assoluto, ma la scelta di viverla dall’occhio (quello sinistro, il solo a rispondere ai comandi. L’unica porta che lo tiene aggrappato alla realtà) del protagonista (interpretato da uno magistrale Mathieu Amalric) dunque in maniera quasi totalmente soggettiva, sconvolge disturba angoscia. Forse, la scelta è anche dettata dalla sensibilità del regista nei confronti di quel volto sfigurato dalla malattia: la prima volta, lo vediamo attraverso un vetro opaco del corridoio dell’ospedale, Schnabel ci prepara senza fretta a quel viso di dolore.
E’ la storia, la tecnica, la cronologia dei fatti a rendere infallibile questo film, che poteva risultare invadente o ripetitivo se paragonato all’opera d'arte che è “Mare Dentro”: contrariamente a quanto scritto, si è spettatori di un’intensità differente, che serra la gola, scuote, strappa il cuore in modo diverso.
Vi sono alcuni istanti, nel film, in cui sentivo forte il desiderio di urlare al mondo intero la sofferenza silenziosa del protagonista, affinché non restasse quel grido muto e inascoltato; perché era doloroso stare seduta lì mentre un occhio (il destro) veniva ricucito e dunque escluso dal resto del mondo, perché era straziante ascoltare le lacrime di un Padre impossibilitato ad abbandonare le mura domestiche in quanto infermo, a non poter correre incontro ad un figlio malato, non essere in grado di dare a lui braccia forti su cui sorreggersi. Immagini indelebili per una sensibilità come la mia. Che restano vive (e della quali ne sento il bisogno tutt’ora) nella mia memoria e che fanno di questo film una bellezza rara.

E’ la storia di Jean-Dominique Bauby, caporedattore della rivista francese “Elle”, trascinato nel fondale dell’inferno dal suo scafandro. Una corazza ingombrante, troppo pesante da sostenere, troppo fragile per poter ribellarsi al fato. Laggiù, dove nessun raggio di speranza è in grado di arrivare, dove non può giungervi alcun essere umano, dove il buio attraversa l’anima, ha preso vita una farfalla e, nel suo volo leggero, ha combattuto la corrente sino a librarsi nel cielo.

Questo film mi ha sconvolta, mi ha spinta a cercare silenzio, a immunizzare la mia anima da qualunque virus quotidiano: il caos, la superficialità, le chiacchiere inutili, la prepotenza gratuita, l’opportunismo; è come se la notte non fosse passata ed io fossi ancora là, su quella poltrona a fissare i titoli di coda scorrermi davanti ed a sentirmi povera dentro.

Questa pellicola nasce per donare speranza, per ricordare a chiunque quel battito d’ali di farfalla, che noi tutti semplicemente chiamiamo libertà (in questo caso, si tratta di immaginazione. La libertà di sentirsi in mezzo al mare con la donna amata, di fare l’amore fra le onde o di accarezzare i capelli del proprio figlio. Sognare è la libertà più vera). Conoscerla. Acquistarla. E soprattutto amarla follemente.
E “Ramshackle Day Parade”, che coincide con il riaccendersi di luce e realtà, soffoca. Viene voglia di esserci. Tutto qui.

Post Scriptum: ci si sente sempre in debito con questo genere di film. Sembra che non si dica mai abbastanza.

Citazioni
- Jean-Dominique Bauby (Mathieu Amalric) "Ho appena scoperto che a parte il mio occhio ho altre due cose che non sono paralizzate: la mia immaginazione e la mia memoria"
- Jean-Do "Ero cieco e sordo, non mi serviva necessariamente la luce dell'infermità per vedere la mia vera natura"

Carta d'identità
Titolo originale: Le scaphandre et le papillon
Titolo italiano: Lo scafandro e la farfalla
Data di uscita (in Italia): Cannes 2007 - 15 Febbraio 2008 - Nominations Oscar 2008
Genere: Drammatico
Durata: 112'
Regia: Julian Schnabel
Cast: Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Hiam Abbass, Niels Arestrup, Fiorella Campanella, Jean-Pierre Cassel, Emma de Caunes, Max von Sydow
Da vedere: guardatelo, guardatelo, guardatelo. E’ imperativo, tassativo, categorico. Quanto sa donare il cinema (per questo lo amo così tanto).

lunedì 20 ottobre 2008

Amori incompleti


Vicky Cristina Barcelona” è un sinuoso sentiero in salita, in mezzo ad un paesaggio mozzafiato. Senza sforzo ci si lascia trasportare (e ingannare) dallo scenario ma, al raggiungimento della meta, difficilmente ci si scrolla di dosso la fatica. Facilmente l’impegno sovrasta la bellezza.
La nuova fatica dell’indiscusso maestro (Woody Allen), è una parafrasi (malriuscita) di “amore ed equilibrio”. Soltanto che mi ha colpito a pugno duro, proprio in mezzo allo stomaco. Fatico a reprimere quello che, questa pellicola, ha spalancato dentro di me proprio perché il tema dell’amore mi disorienta non poco (soprattutto in un momento come quello che vivo). Se volessi e/o dovessi analizzare l’aspetto profondo e mistico, mi abbandonerei in labirinti senza vie d’uscita rivelando il mio lato sensibile e fragile nei confronti dell’amore (inteso come sentimento vero), dunque proietterei la critica verso l’anima tecnica e stilistica del regista che tanto amo e, negli ultimi anni, seguo.
Allen ha sicuramente fortificato il suo stile nella scelta del cast: la sua musa (Scarlett Johansson) dona come sempre femminilità e sensualità concentrate in Cristina, una giovane donna in cerca della sua parte (volontariamente) artistica e probabilmente di un compiacimento che va al di là dei sentimenti profondi. Alienata e nel contempo ammaliante Penelope Cruz (entra in scena a film abbondantemente iniziato, ma l’attesa intensifica il suo personaggio: una sorta di Amy Winehouse spagnola) nei panni di Maria Elena, l’artista per eccellenza, una combinazione di follia e raffinatezza, che consacrano il talento dell’attrice ispanica. Vicky è invece interpretata da Rebecca Hall, ed è forse (mi permetto di aggiungerlo) il personaggio a cui (noi spettatrici) ci leghiamo morbosamente in quanto riflesso di quella che può essere la donna comune: eternamente insoddisfatta, oppressa da dilemmi paranoici e sgomenta di fronte ad una passione travolgente. Inizialmente ci appare come il personaggio più pragmatico ma un evento riporterà a galla la realtà della sua vita e con essa, anche la parte più “vera”: una circostanza che, seppur breve, le cambierà l’esistenza, le rivelerà la “verità” che da sempre ignora dimostrandole che la vita può essere sì vissuta senza reale partecipazione lasciando che siano gli altri a fare i burattinai della sua vita, ma mai quei “fili” la faranno sentire “viva”. Sarà, per l’appunto, l’incontro con il pittore Juan Antonio (Javier Bardem) a spalancare la finestra sulla sua esistenza, a restituirle un “quotidiano” fittizio. Vivrà come se, senza la presenza di questo artista (emblema della sua autenticità), il mondo le voltasse le spalle. Per quella sola notte, il copione della sua vita, verrà compromesso totalmente. Un breve e solo incontro. Sono colpita dal personaggio di Vicky poiché la sua debolezza è anche la mia.
Amo tantissimo la recitazione di Bardem, le sue metamorfosi, la sua naturalezza (in quest’occasione accentuata da scene recitate – in spagnolo – in lingua originale. I duetti con Penelope Cruz (sua reale compagna nella vita) sono trascinanti): il regista l’ha definito “sessualmente carismatico”, personalmente lo trovo fascinoso, notevole e concreto. Inoltre, trasmette una tale passionalità che (senza remore) mi inebria.
Annoto anche la splendida fotografia di Javier Aguirresarobe: dipinge Barcellona e dintorni con tanta accuratezza e solennità; Woody Allen è molto legato al potere delle ambientazioni, prima di lavorarvi deve amare la città, scoprire ogni angolo, ogni colore e sfumatura e in questo film Barcellona ne esce sicuramente vittoriosa. L’imponenza della Chiesa della Sagrada Familia, opera incompiuta di Gaudì, toglie il fiato: straordinaria.
In fin dei conti, escludendo meccanicità e lentezza, il film è piacevole ma ben lontano dalle opere reali di Woody Allen. Torno a ripetere, senza approfondire, che dal punto di vista emotivo mi ha trafitto profondamente: si discute dell’amore, spesso incompleto ed opportunista, lontano mille anni luce dal sentimento che provo attualmente. Per questa ragione, in definitiva, mi ha aiutata a riflettere.
Trama
Vicky (Rebecca Hall) è una studentessa universitaria in cerca di notizie sulla civiltà spagnola, Cristina (Scarlett Johansson) è invece una regista di cortometraggi in erba. Le due amiche americane raggiungono Barcellona per l'estate. L'incontro con un attraente pittore spagnolo (Javier Bardem) porterà a galla le loro debolezze e paure. Come se non bastasse, l'ex moglie (Penelope Cruz) del pittore catalano, torna nella sua vita dopo un tentativo di suicidio.
Citazioni
- Juan Antonio "Perché ama tanto la cultura catalana?" - Vicky (Rebecca Hall) "Mi sono innamorata a quattordici anni di Gaudì, e una cosa tira l’altra"
Carta d'identità
Titolo originale: Vicky Cristina Barcelona
Titolo italiano: Vicky Cristina Barcelona
Data di uscita (in Italia): Cannes 2008 - 17 Ottobre 2008
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico
Durata: 90'
Regia: Woody Allen
Cast: Javier Bardem, Scarlett Johansson, Penelope Cruz, Patricia Clarkson, Kevin Dunn, Rebecca Hall, Pablo Schreiber, Carrie Preston
Da vedere: dietro alla cinepresa c’è un “certo” Woody Allen: una sufficiente motivazione per non perderlo. Indefinibile (attualmente).

venerdì 10 ottobre 2008

Ma non si stava meglio con le bugie?


Premetto: questo film non lo volevo vedere proprio. Per fortuna, ho ceduto alle lusinghe.
Ora mi sento “leggera”: non conoscevo più questa sensazione di spensieratezza da troppo tempo ormai e il lavoro di Gianni Zanasi me l’ha restituita. Una percezione effimera, ne sono consapevole, ma necessaria. E’ora di cercare “me”.
Questa pellicola può assomigliare alle mille tragicommedie all’italiana: gente che s’ammazza di fatica per guadagnarsi la normalità, felicità che si consuma dentro ai problemi mai affrontati, famiglie come rifugio di paure e non come condivisione di sogni, amori sbocciati poiché si sta male ma da soli si sta ancora peggio. “Può”, ma “non deve”.
Innanzitutto, facciamo il passo più importante: entriamo nell’ottica dell’irriflessione, non è che un film ha sempre da insegnare qualcosa (o perlomeno non necessariamente). Non racconta con leggerezza una dramma, ma mostra le incognite che possono esistere nel quotidiano di ognuno di noi, con un’invidiata autoironia.
In secondo luogo, merita il plauso d’apertura Valerio Mastandrea: sono ancora spettatrice turbata di quello sguardo vuoto e allo stesso tempo rabbioso di Antonio in “Un giorno perfetto”. In ordine cronologico, “Non pensarci” entra nelle sale nel 2007 mentre il film di Özpetek l’anno successivo ma, nella mia personale cronografia, vi è stato uno stravolgimento temporale: Stefano Nardini, mantiene la forma “disordinata” (caratteristica peculiare di Mastandrea) ma acquista ingenuità e innocenza. Prende a calci il mondo, con quello sguardo da cane bastonato che tanto intenerisce. E poi ha l’abilità straordinaria dell’espressività: si percepisce chiaramente quando, dopo la rivelazione shock della madre (in piena crisi karmica), cala un silenzio che trova coraggio in quegli occhi malinconici (e nel pomo d’Adamo impegnato in un tentativo di scioglimento di un nodo in gola).
Ma tutto l’intorno ha un colore vivace: la Rimini dipinta da Roberto De Angelis, il cast (doveroso citare il fratello Alberto interpretato da Giuseppe Battiston: infagottato nei chili di troppo e imbottito di inutili pillole antidepressive per sfuggire alla realtà), le battute taglienti, l’energia che trasmette questa pellicola e che prende vigore con l’evolversi della vicenda.
Questo film è un marasma di caos e incomprensioni, coinvolge e stravolge come un fiume in piena: ha talmente tanto da raccontare che parrebbe interpretata al momento, senza una sceneggiatura scritta alle spalle o un copione studiato. E’così genuino che ci si dimentica di poltrone e pop-corn.
E non è altro che lo specchio di un malessere generale, quello che coinvolge il Nostro Paese (ma attualmente dilatato in ogni dove). Solo che bisognerebbe seguire l’esempio di Stefano: lui del mondo si è preoccupato, ma poi è tornato a sognare.
Trama
Stefano (Valerio Mastandrea) è un chitarrista rock che sogna di incidere un disco. Nullafacente e deluso dall'ennesima "sconfitta" decide di tornare a Rimini, nella sua città natale. Qui troverà la sua famiglia e ad essa affida i suoi fallimenti. Ma ad aspettarlo troverà una situazione a lui sconosciuta che, inaspettatamente, lo aiuterà a capirsi.
Citazioni
- Michela (Anita Caprioli) "Sei venuto qui perchè avevi bisogno di noi" - Stefano (Valerio Mastandrea) "Sì...ma non di tutti insieme"
- Stefano "Se uno si butta da un palco, è perché si fida"
Carta d'identità
Titolo originale: Non pensarci
Data di uscita (in Italia): Venezia 2007 - 04 Aprile 2008
Genere: Commedia
Durata: 105'
Regia: Gianni Zanasi
Cast: Valerio Mastandrea, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Caterina Murino, Paolo Briguglia, Dino Abbrescia, Teco Celio, Gisella Burinato, Paolo Sassanelli, Luciano Scarpa, Natalino Balasso
Da vedere: poiché sorridere davanti ai problemi (grandi o piccoli che siano) non rende migliore la situazione, ma per lo meno fa sentire “vivi”. E quanto è bella Caterina Murino. Vitale.

giovedì 9 ottobre 2008

E’questione di… etica


Tom "Una volta ho fatto un sogno: camminavo in un bosco non so perchè, poi si è alzato il vento e mi è volato il cappello" - Verna "Tu l'hai rincorso, è così? E a forza di correre sei riuscito a trovarlo e a riprendertelo, poi hai visto che non era un cappello, era diventata una cosa diversa, una cosa preziosa" - "No, era ancora un cappello e non gli sono corso dietro. La cosa più ridicola è un uomo che corre dietro al cappello"

Mentre scorrevano i titoli di coda, ho pensato ad un romanzo di Stephen King: anche ad uno malriuscito, che si fatica a voltare pagina. Ad uno lento ed un po’ ripetitivo. Quando (finalmente) si scorgono gli ultimi capitoli ci si affaccia su un mondo nuovo, come se dopo una prolungata sosta si riprende a correre. Si resta incollati a quelle pagine, come in apnea. Si risolleva lo sguardo quando la parola “Fine” riporta tutto a galla.
I film nati dalle menti di Joel e Ethan Coen, sono quelle ultime pagine. Ho visto “Crocevia della morte” sola nella mia stanza: col passare dei minuti, l’aria che respiravo si è fatta carica di tensione, se dapprima mi distraevo da spie luminose sul Pc, sms sul display e chissà quale altro segnale acustico, pochi istanti dopo mi sono ritrovata con la faccia incollata allo schermo della tv, con qualunque mezzo comunicativo (persino la porta) impossibilitato a relazionarmi con l’universo esterno. A dirla tutta, questa pellicola non mi ha rapita immediatamente: dialoghi e scene iniziali mi sono apparsi molto lenti e macchinosi, annebbiati da nomi e convenevoli. Ma quando la pistola spara, anche lo spettatore più distratto viene inghiottito nell’oblio.
Ed ecco che rivivo il mio “Déjà Vu”: quando, criticando un film dei fratelli Coen, eviterò di sottolineare l’abilità nella creazione dei personaggi, chiamate un’ambulanza. E’lo stile inconfondibile di chi sa stupire per davvero, senza in nessun caso cedere il passo al banale: Tom (un consigliere irlandese) interpretato da un anonimo (per quanto mi riguarda) Gabryel Byrne, ha il fascino del duro e discreto uomo di parola, gioca molto di sguardi, complici i suoi occhi azzurri e sconosciuti.
Fugace ma speciale (per chi ha poi visto “Fargo”) la presenza di Steve Buscemi (è Mink).
Colpisce (e moltissimo) il ruolo di Barnie (John Turturro): lo annoterei fra i “folli coeniani”, che tanto mi piace osservare e di cui amo stupirmi. Splendida la scena in cui quest’ultimo viene accompagnato nel bosco (emblema del “crocevia” del titolo) dove verrà giustiziato: esempio puro di recitazione perfetta. Ho ancora negli occhi l’abilità nel trasmettere tensione e suppliche con soli sguardi e gesti. Come se al patibolo, ci andasse sul serio.
Desidero conoscere a fondo questi due registi poiché hanno una forza inalienabile: quella di dar immortalità agli istanti. Nei giorni successivi alla visione, tu spettatore fatichi a cancellare alcuni fotogrammi: la scena del bosco, coperto di colori autunnali, spoglio e malinconico, teatro di un’imminente tragedia. La parossistica sparatoria in casa del boss Leo (Albert Finney), aggredito da due malintenzionati, arma in pugno, orgoglio sulle spalle e le immancabili vestaglia e pantofole (una divisa onnipresente in quasi tutte le pellicole visionate sin d’ora. Leo, apparso fino a quel momento debole dietro alle sue rughe, si scatena in una violenza inaudita: indiscutibilmente geniale.
La sorpresa da una parte e la continuità dall’altra, come se ogni lavoro mantenesse un filo conduttore invisibile capace di “adattare” lo spettatore al nuovo habitat: cito di nuovo ciabatte e vestaglia, la palpabile follia, le debolezze di ogni personaggio, un improvviso atto di violenza, la sottile ironia, la signora Coen (Frances McDormand, in una piccola parte da segretaria).
Una moneta nelle mani dei due prestigiatori: stupore o certezza? Qualunque risultato dia il suo lancio, lo spettatore perde la scommessa ma guadagna un’emozione.

I due registi sono gangster spietati: sparano una volta sola, ma senza mancare mai il bersaglio. MAI.
Trama
America, anni ’30. Un potente ebreo oramai in declino si fronteggia con un boss della mafia italo-americana in ascesa. Fra i due contendenti, veleggia un giovane consigliere irlandese in cerca di “lavoro sporco” e col vizio delle scommesse. In mezzo: una donna, una strada malavitosa e tradimenti.

Citazioni
- Johnny (Jon Polito) “Sono stato abbastanza loquace?” - Leo (Albert Finney) “Come un peto”
- Leo “Tu hai la forza che ti permetto io, quando voglio ti sgonfio”
- Leo “Chi non osa dare una mano agli amici, non sa dare un calcio ai nemici”
- “I cavalli hanno le ginocchia?”
- Johnny “Non hai capito, l’amicizia è uno stato mentale”
- Johnny “Ti piacciono i bambini Tom?” – Tom “NO”
- Johnny “Bene ragazzo, pensaci. Ma io ti do una spinta, se per caso ti gira di rifiutare l’offerta non sarai più in forma uscendo da qua” – Tom “Fisicamente dici o come stato mentale?”
- Tom “Se sapevo che volevi sciolinare i nostri sentimenti, magari a casa ripassavo qualche poema”
- Johnny “Con i “forse” non sa fa vero il falso”
- Verna (Marcia Gay Harden) “Tu fai sempre il giro più lungo per avere ciò che vuoi”
- “Dov’è Leo?” – “Se parlo è sicuro che non mi ammazzi?” – “Se ti uccido dopo che me l’hai detto e poi scopro che è falso, che gusto avrò di uccidere un morto?”
- “Chi ti ha gonfiato il labbro?” – “E’un ricordo di guerra, peggiora in mezzo agli imbecilli”
- “Zitto. Hai in bocca qualche dente di troppo, forse”
- Johnny “Fuori dai cogl… e prendi la rincorsa”

Carta d'identità
Titolo originale: Miller's Crossing
Titolo italiano: Crocevia della morte
Data di uscita (in Italia): 1989
Genere: Poliziesco
Durata: 111'
Regia: Joel e Ethan Coen
Cast: John Turturro, Albert Finney, Gabriel Byrne, Marcia Gay Harden, Frances McDormand
Da vedere: per aver conferma di quanto i fratelli Coen appartengano ad un altro pianeta. Geniale come sempre.

martedì 7 ottobre 2008

Attenti a quei due


Ci sono opere sorprendenti o, viceversa, inguardabili. Nel mezzo, quelle incomplete.
Sfida senza regole” è un esempio di “tanto fumo e niente arrosto”. Perché di carne di qualità ce n’è, è l’aroma che manca. L’aggiunta di spezie rafforza la convinzione di avere di fronte un piatto prelibato, senza di esse è senza dubbio uno “spreco”.
Ecco a che assomiglia la nuova fatica di Jon Avnet. E’ una pellicola presuntuosa, ovvero si vanta di grandi nomi, ma decadente poiché non racconta nulla di nuovo. E’ un tentativo di sorpresa, che effettivamente riesce nell’intento: è così scontato, che lo spettatore rimane in attesa di un retroscena che invece… non si presenta. Senza risultare pretenziosa (non lo sono mai stata) il film ha una buona forma: l’idea complessiva di tecnica di ripresa e sviluppo della trama é indiscutibilmente esaustiva ma quando ci si appresta ad andare in profondità, si rimane amareggiati. Non sopporto l’illusione di una superficie ammaliante, al di sopra di un fondale privo di colori.
Non vorrei apparire me medesima banale nell’avvalorare la maestria di due veterani del grandeschermo (mi riferisco a Robert De Niro e Al Pacino) che si ritrovano compagni di copione dopo tredici anni da “Heat – La Sfida”, ma meritano davvero un’ovazione speciale poiché nonostante siano interpreti di una trama immeritevole, sono un esempio di cinema autentico. La costruzione dei personaggi, sulle spalle esperte di due attori di questo calibro, è perfetta: De Niro è un pitbull preparato a ringhiare alla sua stessa ombra, Al Pacino è il detective razionale ed innocuo. Due figure in contrasto accomunate dal senso del dovere e da un’amicizia inconfutabile.
Ma sono parole già scritte, emozioni già vissute, ombre confuse di forme disegnate senza contorno.
Insomma, non è oro tutto quello che è di luce, ma è anzitutto doveroso osservare da vicino.
Trama
I pluridecorati detective Turk (Robert De Niro) e Rooster (Al Pacino) sono impegnati nell’indagine di un “poeta” serial killer che uccide malavitosi. Due giovani agenti, tentano di soffiare ai due veterani la soluzione del caso; le deboli prove, però, delineano un quadro sorprendente: uno dei due poliziotti esperti viene indagato come presunto omicida.
Citazioni
- Turk (Robert De Niro) “Sparare non è sbagliato, basta prendere la persona giusta"
- Turk "La maggior parte della gente rispetta il distintivo. Tutti rispettano la pistola"
Carta d'identità
Titolo originale: Righteous Kill
Titolo italiano: Sfida senza regole
Data di uscita (in Italia): 26 Settembre 2008
Genere: Azione, Drammatico
Durata: 101'
Regia: Jon Avnet
Cast: Al Pacino, Robert De Niro, John Leguizamo, Donnie Wahlberg, 50 Cent, Frank John Hughes, Carla Gugino, Shirly Brener, Katie Chonacas, Brian Dennehy, Rob Dyrdek
Da vedere: se non strettamente necessario (non si ha luogo nel quale rifugiarsi in caso di temporale improvviso, per esempio) non lo annovero fra i film "imperdibili". Lo diventa se si tiene in considerazione il "solo" cast, ma si sa un film è composto da diverse sfaccettature. Ognuna con la propria importanza.

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